I giganti, favola per la gente ferma
di Davide Iodice e Silvestro Sentiero
liberamente tratto da I
Giganti della Montagna di Luigi Pirandello
drammaturgia del corpo Marina Rippa
spazio e allestimento Massimo Staich Grazia Pagetta Tadema De Sarno Prignano
musiche a cura di Lello Settembre
produzione Biennale di Venezia, Berliner Festspiele, Libera Mente
con
Emma Dante, Piero Marcelli, Vito Garofalo (Alberto Astorri), Paola Tintinelli, Luigi Biondi, Salvatore Caruso, Sergio Di Paola, Domenico Mennillo, Valeria Zurlo, Vincenzo Del Prete, Camilla Mangili
gli attori della compagnia libera mente e
gli artisti del Circo Rois - Fratelli Minetti
assistenti alla regia Sergio De Simone e Chiara Bazoli
regia Davide Iodice
<<C’è un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto. Per tirarvi il tendone…>>. Sul letto di morte Luigi Pirandello suggeriva al figlio Stefano questa immagine per il finale degli incompiuti Giganti della montagna. Ora nel parco della Bissuola, trasformato in accampamento di circhi dalla Biennale Teatro trasferitasi a Mestre, i giganti non appaiono mai. La storia dell’incontro fra gli Scalognati, derelitti della vita rifugiati in una villa lontana dal mondo, e la compagnia della contessa Ilse, artisti rifiutati dal pubblico, avviene sotto un tendone di circo, fra traversine e pali che disegnano un bosco e una radura con l’erba a vista. Appare il circo degli Scalognati con fuochi e volteggi acrobatici, sotto un rumore di vento e un motivo penetrante fischiettato. Poi entra con la musica di una marcia funebre di qualche processione siciliana la compagnia di Ilse. Spingendo un'Apecar, con una donna allucinata al volante. Fatica, stanchezza. Un’aria paesana e disfatta, un’allegria sfumata in tragedia. Gli abitanti della villa sono ombre nel buio, presenze incerte, impaurite.
Davide Iodice, giovane regista napoletano, ama affrontare i testi classici con i residui delle tradizioni dello spettacolo popolare. Ricordiamo una bella Tempesta "da" Shakespeare, messa a reagire con la diversità antropologica di anziani attori di sceneggiata. Ma il reperto vivo non sta chiuso in se stesso, in un incartamento di nostalgia. Si mescola con attori giovani, di diverse formazioni ed esperienze, che usano il teatro per interrogarsi sul presente. Così l’opera estrema di Pirandello, aperta a molti finali e interpretazioni, una riflessione acuta e dolorante sul rapporto fra l’arte e gli uomini, fra l’arte e la società, la storia, diventa una incontro fra diverse specie di erranti. Una piccola famiglia di circo, di quelle che sopravvivono non si sa come girando per le periferie del nostro paese, si incontra con attori di strada e con la compagnia di Iodice, l’associazione Libera mente. Il progetto ha un titolo illuminante: "Erranza e sopravvivenza dell’artista agli orli della vita". E per contrasto lo spettacolo, riscritto dal regista in collaborazione con Silvestro Sentiero, si chiama I giganti. Favola per la gente ferma.
La gente ferma siamo noi del pubblico. A noi Iodice e i suoi compagni, attraverso il canovaccio pirandelliano, racconta per semplici e conturbanti immagini le lacerazioni dell’artista quando si interroga sul senso della sua arte, sulla necessità, sul bisogno della comunicazione e sulla solitudine di chi oggi vuole praticarla in modo reale. Le parole dello scrittore siciliano sono asciugate in un ritmo nervoso, veloce, che rispetta tuttavia l’impianto dei due atti portati a termine, senza avventurarsi in ipotetici finali.
La compagnia della contessa, appena scopre di avere un possibile pubblico negli Scalognati, si lascia andare a pose spettacolari, tendenti al melò, rivelandosi un gruppo di guitti a malapena tenuti a bada da una volitiva Ilse, votata a compiere la sua missione artistica, portare fra gli uomini I giganti, il testo del poeta morto per lei (non La favola del figlio cambiato, come nell’originale). Si scontra con Cotrone, imbonitore, prestigiatore, intrattenitore più che mago, un ragazzo cordiale, a volte convulso, "licenziato" dalla vita e ritiratosi con altri "marginali", "freaks" in un luogo dove si può fare a meno di tutto. Un rifugio che nasconde magie, apparizioni, lucciole e meraviglie di uno spettacolo sognato, che pian piano catturano gli attori della contessa, trasformandoli. Fra canzoni siciliane e numeri di circo che irrompono, semplici, senza grandi dimostrazioni di abilità, un volteggiare di Hula-Hoop, un corpo trafitto dai bastoni in una scatola magica, un serpente lasciato in terra a dividere un teso dialogo, acrobazie, l’entrata di un pony, un numero di clown sgangherato e crudele, ci trasferiamo per piccoli slittamenti in un altro mondo. Leggero e inquieto, arsenale di maschere che gli attori indossano in parate circolari fuori della pista, sul cerchio esterno in penombra, stato crepuscolare dell’anima. Alla frenesia, all’esibizione, si sostituisce una malinconia che apre vuoti e sguardi desolati verso gli spettatori. Immagini che mostrano una bellezza, umana prima che artistica, e si ritraggono in una mancanza.
L’esplosione dell’incontro fra spettacolo e dolore, e sentimento di un’assenza, avviene nel secondo atto, nella "camera delle apparizioni", in un susseguirsi di numeri e visioni, fino a una lunga processione su quel bordo della pista di figure che sembrano fantasmi, i morti della Sgricia guidati dall’Angelo Centouno. Vesti decorate con ex voto, con cartoline, corpi che si toccano le ferite, si trascinano con fatica, all’improvviso innalzano il pugno chiuso, si sorreggono l’un l’altro, barcollano, si disfano, guardano senza forza noi spettatori mentre la trapezista vola sulle teste di un antipodista che fa girare aste di fuoco sui piedi veloci. Un kantoriano corteo di spettri concluso dall’impiccagione del poeta, di un attore, Spizzi, compianto da una canzone siciliana e da una donna che si arrampica attorcigliandosi sulla corda. Fino al ritorno del buio, del vento, al passaggio del pony con ali nere, alla rivelazione dello stato onirico. E allo scontro, teso, fra Cotrone e Ilse: facciamo vivere così l’arte fra di noi, come un sogno continuo per il quale non servono parole – no, dobbiamo portarla in mezzo agli uomini. E qui finisce l’opera: con uno sguardo sconsolato a noi del pubblico, illuminati, come fossimo quei giganti che con il peso della loro ragione quotidiana mettono l’arte, la volontà di trasformazione, su incerti orli.
Uno spettacolo tenero, veloce,
struggente. Moderno nella sua necessità di ricorrere ad antiche tradizioni,
nella sua ansia di capire il posto dell’arte in una società dimentica come la
nostra. Corpi emozionanti in scena, a partire dagli artisti del Circo Rois, i
fratelli Minetti, fino al leggero Cotrone di Vito Garofalo, ex operaio Fiat
licenziato, riciclatosi come clown di strada, alla lucida e appassionata Ilse
di Emma Dante, oltre che attrice anche giovane regista, di recente insignita
del Premio Scenario, allo strepitoso Salvatore Caruso, un Quaqueo alla Buster
Keaton, alla acuminata Sgricia di Paola Tintinelli e a tutti gli altri, che
concorrono a un lavoro veramente corale. Lo spazio è stato curato da Massimo
Staich, Grazia Pagetta, Tadema De Sarno Pignano. La bella scelta musicale, che
cita anche temi felliniani, è di Lello Settembre.
Massimo Marino-Tuttoteatro.com